Quei quattro vignaioli eroici e rivoluzionari ci trasmettono allegria, orgoglio e amarezza
Quando in sala si accendono le luci – e la gente non sa se applaudire o indignarsi e allora tace – la prima cosa che vorresti fare è correre a casa, aprire la tua piccola cantinetta e svuotarla: buttare tutto quel nettare (e quel denaro) nel lavandino sembra l’unico modo per resistere.
Quanta chimica c’è dentro i vini che beviamo tutti i giorni, compresi quelli carissimi, premiatissimi, per i quali i guru del settore, i grandi sommelier e i critici, spendono parole che stanno a metà fra il lirismo e la poesia? Tanta, spesso troppa, secondo Stefano, Elena, Giovanna e Corrado i quattro vignaioli italiani protagonisti di “Resistenza Naturale”, il nuovo film documentario di Jonathan Nossiter, il regista che dieci anni fa aveva realizzato Mondovino.
E che ci fa raccontare da Stefano Bellotti, il Pasolini degli agricoltori, il piemontese che da tanti anni pratica una forma politicamente ed ecologicamente radicale di agricoltura sulle colline di Novi Ligure, sopra Alessandria,che “l’incidenza più alta delle malattie tumorali si trova, guarda caso, in zone ad alta concentrazione di produzione di frutta, in Romagna e in Trentino”. Fa paura, no?
Ed è lo stesso Bellotti a lasciare tutti senza fiato quando prende una vanga, alza due zolle di terra (quella “cattiva” con molto più sforzo), e le mette a confronto: la sua è viva e profumata, quella del vicino – che pratica metodi di coltivazione convenzionali – è morta, asfittica e odora di ferro.
Ed è sempre di Stefano l’imbarazzante aneddoto che racconta – quando il tema diventa la Doc (“Una cosa nata per difendere il consumatore, in realtà una gabbia nella quali a venire difese sono solo le regole dell’industria”) -, di quando si presentò davanti alla commissione esaminatrice con un vino che non era suo e aveva già passato l’esame, e lo bocciarono.
E, insomma, quelli come loro la Doc li considera “fuori legge” per il solo fatto di non volersi omologare. E, allora: la dicitura Doc è sinonimo di qualità legata al territorio di provenienza o segno di appartenenza ad una corporazione che decreta la commerciabilità di una bottiglia?
Che poi il problema non è solo il vino che entra nel bicchiere e poi in noi. E’ l’ambiente. E’ la terra. Ed è anche l’aria che respira chi lavora in certi vigneti e chi, vicino a quei vigneti, ci vive e, in certi giorni, deve chiudere le finestre e tapparsi in casa per non respirare quell’aria.
Anna Pantaleoni, nipote di Elena (ex libraia piacentina, diventata vignaiola per eredità paterna), racconta: “All’università ci spiegano che il vino non è una cosa naturale. Non sono previsti errori, il vino naturale per loro è un errore e devi sapere esattamente quello che stai ottenendo.
Ti insegnano ad avere un approccio industriale, come affrontare il mercato. Ti insegnano rese, terreni e impianti per avere un tot di produzione”.
E, così, alla fine, dopo essere stati coinvolti dall’allegria rivoluzionaria dei protagonisti, si torna a casa accompagnati da due sentimenti contrapposti: da una parte, amaramente, ci si sente quasi presi in giro, per l’ennesima volta, dal sistema; dall’altra si riscopre l’idea che diversità e unicità siano valori da difendere strenuamente, per la sopravvivenza della nostra cultura e per la nostra salute. E, dunque, la voglia di lottare. E resistere. E, magari, cercare, anche noi consuimatori, una nuova strada.
http://www.gazzettino.it – 08/06/2014