Keiko, la sommelier di Osaka incantata dai vini piemontesi e dai paesaggi di Acqui Terme
Ero seduta in un bar, sfogliavo un settimanale e ho visto un riquadro nella pagina, un corso per sommelier di 1° livello. In quel momento non lavoravo, mi sono detta: perché no? Credevo fossero lezioni leggere. E invece mi sono ritrovata con 3 libri alti così».
Nel 2001 Keiko Yamada era appena arrivata da Osaka ad Acqui, un salto dal futuro alla vecchia Europa per amore di uno chef della città termale conosciuto in Giappone, che allora era il suo compagno e sarebbe diventato il papà del piccolo Samuele.
Una lezione dietro l’altra, Keiko, 41 anni, s’è ritrovata diplomata 3° livello dell’Ais, l’Associazione italiana sommelier.
Oggi lavora per catering, eventi di degustazione, ristoranti, progetta di svelare ai giapponesi le meraviglie di un Monferrato ancora poco noto.
È fra le «Donne del vino» ed è conosciuta non solo nell’Acquese ma anche a Ovada, dove ha collaborato con «Il Quartino DiVino». C’è chi resta stupito dai suoi occhi a mandorla dietro a bottiglie di Nebbiolo, Barbera e Dolcetto, ma lei spiega di aver notato «una grande apertura mentale.
All’inizio, mi chiedevo come mai non dessero la precedenza ai sommelier italiani. Poi ho capito che basta essere bravi. La nazionalità è in secondo piano».
Quand’è arrivata ad Acqui, in un ottobre di 13 anni fa, non pensava che la sua passione per il vino, cominciata all’università, sarebbe diventata un lavoro, tanto più in una regione di lunga tradizione enologica come il Piemonte, lontana anni luce dalla terra del sakè.
Dove rossi e bianchi «si producono ma non hanno nulla a che vedere con quelli di qui – racconta Keiko, con un sorriso delicato e un italiano ormai fluente -. Per cultura, i giapponesi si applicano per replicare al meglio tecniche e caratteristiche. Ma mancano la terra, l’aria, il sole del Piemonte».
La magia del vino l’ha conquistata ma chiederle quale sia il suo preferito la mette in difficoltà: «Dipende, in questo momento l’Albarossa. È un vitigno nuovo, che non ha ancora una strada tracciata.
Ogni produttore tenta la propria, è sempre una scoperta. E per me la storia che sta dietro a un vino è fondamentale. Sapere chi lo fa, e come, influenza molto il mio giudizio».
È affascinante osservarla mentre parla con competenza di un’arte, quella della viticoltura, che poco ha a che fare con le sue radici ma che oggi è l’antidoto alla nostalgia che ogni tanto prova per il Giappone: «Quando sono triste prendo l’auto, guido tra le colline e le vigne che circondano Acqui. È il paesaggio che mi tiene legata qui, che mi impedisce di tornare a Osaka».
La città dove negli Anni Novanta, dopo una laurea in Arte, specializzazione tessuti lavorati e dipinti, iniziò la carriera da assistente universitaria, facendo del vino – «quello francese, l’unico che si beveva dalla nostre parti» – nient’altro che un hobby.
A portarla in Europa fu un corso d’inglese a Londra: in Italia arrivò sulla via del ritorno per il Giappone, per una tappa a Venezia. Si ritrovò su un treno sgangherato, senza indicazioni per gli stranieri, con passeggeri sconosciuti che chiacchieravano allegri come amici di vecchia data. «Ma che paese è questo?» si chiese stupita e affascinata, senza sapere che – dopo un corso d’italiano e il colpo di fulmine – sarebbe diventato la sua casa.
www.lastampa.it – 26/10/2014