Zonin: “Voglio portare il Prosecco oltre la Grande Muraglia cinese”
I cicli cambiano ogni decennio, bisogna indovinare le tendenze. Oggi? Vanno i veneti e i pugliesi
Vede questo bicchiere? Se convincessimo tutti i cinesi a bere solo un bicchiere di vino l’anno il nostro export potrebbe aumentare di un milione e mezzo di ettolitri». No, la Cina non è ancora vicina per il vino italiano, ma Gianni Zonin, alla guida di quello che è il primo produttore vitivinicolo privato nazionale – duemila ettari di vigneti, 38 milioni di bottiglie prodotte nel 2011 – non dispera di conquistare anche Pechino e vasti dintorni: «E’ tutto da esplorare, là vendiamo già un po’, ma abbiamo avviato una ricerca per capire che cosa vuole il consumatore cinese. Solo dopo aver studiato a fondo le sue scelte decideremo come investire. Comunque la vera diffusione del vino italiano si avrà, in Cina come altrove, quando i loro turisti verranno in massa qui e proveranno come si mangia e come si beve».
L’export strada obbligata per chi produce in un’Italia dove costumi e recessione limitano i consumi?
«No, l’export è una scelta fatta già dagli Anni ‘60, quando dopo essere entrato in azienda assieme a mio zio Domenico, che nel 1921 aveva cominciato l’attività dai vitigni di Gambellara che possedevamo già da un secolo, decisi prima di portare il nostro vino fuori dal Veneto e poi di andare all’estero quando il mercato unico ovviamente non esisteva ancora: prima la Germania, poi Belgio, Olanda, Svizzera… Oggi facciamo quasi il 70% del nostro fatturato dalle esportazioni e vendiamo in più di cento diversi Paesi».
Dove va il vino italia no e dove potrà andare?
«Oltre la metà delle esportazioni della Zonin son o s u i t re grandi mercati del vino italiano – Stati Uniti, Germania e Gran Bretagna. Negli Usa nel Regno Unito abbiamo anche creato società di distribuzione proprie per controllare meglio la nostra espansione. Poi vengono Australia e Svezia con un 5% dell’export a testa e dopo una miriade di Paesi con quote dell’1 o del 2%: si va per l’appunto dalla Cina alla Russia, dagli Emirati al Brasile, che per noi è uno dei mercati più promettenti; anche là potremmo creare una nostra società di distribuzione. Ma bisogna saper cogliere il momento giusto: il vino è come la moda, segue precisi cicli, che vanno all’incirca di decennio in decennio, e bisogna fiutare prima dove va il mercato. Dodici anni fa decisi di piantare cinquanta ettari a Prosecco; i miei enologi pensavano che volessi dire cinque, ma io insistevo: cinquanta. Adesso ne abbiamo duecento ettari e non bastano».
E le ultime mode?
«In Italia, dopo una stagione in cui sono andati molto i vini siciliani si sta tornano a quelli veneti come l’Amarone, il Ripasso e il Prosecco. Mi aspetto ancora molta espansione dei vini pugliesi: hanno buoni prodotti, a cominciare dal Primitivo e dal Negramaro e poi con il boom turistico del Salento la gente va in vacanza, beve e quando torna a casa cerca quei vini. A livello internazionale Il Prosecco e il Pinot gigio vanno benissimo, ma anche il Moscato sta vivendo un boom nel mondo. Il Piemonte ha adottato una politica conservativa e così si vendono Moscati anche di altra origine, a partire da quelli dell’Oltrepo».
Vuole fare campagna acquisti per diversificare ancora l’offer ta? E dove guarda?
«In Italia siamo già presenti con nove aziende agricole in sette regioni, dal Veneto alla Sicilia, passando anche per il Friuli, il Piemonte, la Lombardia, la Toscana e la Puglia. Per noi la diversificazione è andata sempre al seguito dell’espansione commerciale nel corso degli anni. Adesso guardo ad altre aree, ma sempre per vitigni autoctoni: inutile andare a fare concorrenza a vini prodotti negli Usa o in Australia come i Merlot, i Cabernet e gli Chardonnay. Sono molto interessato alle Marche per la zona del Verdicchio; l’Umbria mi piaceva, ma da un po’ mi pare soffrire; non abbiamo Lambrusco e per questo una presenza in Emilia potrebbe essere utile…».
Fuori dall’Italia avete già Bar boursville, in Virginia. Pensate anche ad altre acquisizioni estere?
«Sì. Quella americana, partita nel 1975, è stata un’esperienza faticosa ma esaltante. Pensi che all’inizio abbiamo dovuto combattere anche contro i pregiudizi: la prima auto che acquistammo per la tenuta era nera e la gente del luogo la chiamava la “Mafia Car”. Ma adesso siamo un’azienda modello e facciamo vini di grande successo come l’Octagon e il Viognier. Ci sono tante aree dove sarebbe bello comprare vitigni, dall’Australia al Sud Africa, dal Cile all’Argentina, per non parlare di Spagna o Francia. Questo però è un mondo dove bisogna muoversi con prudenza. Il vino non è un prodotto ricco, anche se dà grandi soddisfazioni».
Non è un prodotto ricco forse per l’Italia. Ai francesi le cose vanno meglio. Perché?
«Certo, i francesi esportano la metà dei nostri ettolitri e fatturano il doppio, circa 10 miliardi di euro. Hanno grandi vini, ma sanno anche valorizzare i loro prodotti. E poi possono contare sullo Champagne. Lo sa che una famiglia che ha tre ettari di Champagne vive è sistemata? Ma anche l’Italia sta facendo grandi progressi: negli ultimi anni la qualità è decisamente aumentata, molte vigne sono state rinnovate e le esportazioni sono salite a 22 milioni di ettolitri».
La crisi premia solo i prodotti di lusso, come in altri settori?
«Diciamo che con la crisi la gente vorrebbe prodotti di lusso a prezzi da outlet. Noi ci manteniamo su un prezzo al consumatore che generalmente va dai 5 ai 15 euro. Abbiamo anche bottiglie molto più care, ma non andiamo sopra i 60 euro. E in quanto a prezzi più bassi dei 5 euro, come pure si vedono, vuol dire compromettere la qualità».
I disciplinari attuali funziona no?
«Sì, mi pare che la piramide che parte dalla vino da tavola per arrivare al Docg, passando per l’Igt e per il Doc sia corretta e venga sostanzialmente rispettata. Poi, come è ovvio, bisogna sempre puntare il più possibile sulla qualità per affermarsi. Nel nostro settore il “Made in Italy” vale proprio come per la moda, ma più delle campagne pubblicitarie contano il passaparola e i giudizi degli esperti, che ci stanno dando soddisfazioni».
I vostri conti?
«Quest’anno arriveremo a 140 milioni circa di fatturato, con una crescita del 7-8% sul 2011 che in questi tempi di crisi ha del miracoloso, tutta trainata dall’export visto che in Italia le vendite rimangono stabili. In tempi non troppo lunghi puntiamo ad arrivare a 200 milioni. Ma ovviamente, come in molti altri settori, anche per il nostro l’Italia soffre un problema di dimensioni medie delle aziende. Noi che siamo il primo gruppo privato di questo Paese siamo circa un ventesimo del primo gruppo californiano. Davvero troppo piccoli».
Fusioni tra produttori sarebbero consigliabili?
«Certamente, ma mi paiono difficili. Siamo tutti troppo individualisti, troppo legati ai nostri vini e alle nostre terre. E già creare vigneti di certe dimensioni è complesso: pensi che quando ho comprato la tenuta piemontese del Castello del Poggio ho dovuto fare 132 atti notarili per prendere 154 ettari!».
Resta il fatto che gli italiani be vono di meno…
«Certo, quando ho iniziato a lavorare, alla fine degli Anni ‘60, il consumo medio degli italiani era di 120 litri l’anno: dal muratore al contadino, chiunque andava a lavorare con una bottiglia di vino. Oggi si porta dietro l’acqua minerale e i consumi di vino sono calati a 38 litri l’anno. E’ un fenomeno che interessa tutti i grandi consumatori: noi come la Francia e la Spagna. Ma allo stesso tempo Paesi che non erano tradizionalmente consumatori di vino si stanno aprendo molto».
In media gli europei quanto vi no consumano? «Considerando anche i Paesi del Nord il consumo medio è attorno ai 25 litri procapite per anno».
Ambizioni nei superalcolici?
«Assolutamente no, quello è un mercato diverso che – come quello della birra – si sta concentrando nelle mani di pochi colossi mondiali. Sappiamo fare il vino e continueremo a fare quello, anche con i miei tre figli che sono in azienda: Domenico che si occupa della parte tecnica, Francesco che cura il settore commerciale e Michele che segue la parte finanziaria».