Emilia-Romagna e vini: lambrusco ma non solo

Se dici Romagna bevi Sangiovese, se dici Emilia il pensiero va a un bel bicchiere di Lambrusco, il vino per eccellenza da Reggio-Emilia a Modena e a Bologna. Chi non lo ha assaggiato, abbinato a uno di quei bei piatti succulenti e dal sapore antico che si preparano nella pianura padana o sui colli appennini al confine con la Toscana o nella bassa lungo il Po? Un’infinità di varietà e di esperienze sensoriali che fanno tornare alla mente partite a briscola nei bar di paese, immagini sbiadite di Don Camillo e Peppone, il rombo dei motori e della gare di bocce. Più che un vino uno status symbol della cultura popolare emiliana, ma che non disdegna le grandi e raffinate tavole degli chef gourmet.

È una leadership, quella conquistata dal Lambrusco sul mercato e nell’immaginario comune di chi deve pensare a un vino emiliano, che affonda le sue radici nei secoli. E senza dubbio meritata, se si considera come il rosso della Via Emilia è forse il primo vino derivante da un vitigno autoctono italiano, discendendo dalla vitis silvestris, una vite selvatica che per sua asprezza gli antichi romani ribattezzarono vitis labrusca.
Una nomea e un nome che non ne impedirono la diffusione e il successo, tanto che gli americani, in tempi non lontani, lo definirono il “red champagne”, per la sua caratteristica frizzante che lo rende un vino di per sé allegro e gioviale, ideale per la compagnia.
E così oggi il Lambrusco è il vino italiano più venduto, con oltre 400 milioni di bottiglie prodotte, nelle sue diverse caratteristiche e declinazioni, derivanti dai luoghi di provenienza delle uve e dalle modalità di produzione.

Da Reggio-Emilia a Bologna, passando per Modena, ma sconfinando in Lombardia e in special modo nel mantovano, il Lambrusco ha la sua terra da sempre e stretto è il legame che lo unisce a questa parte di Emilia, quasi una simbiosi indissolubile tra le parti dove l’una richiama sempre automaticamente l’altra. A chi gravita intorno il compito, certo non facile, di provare a “succhiare” un po’ di notorietà, oppure a lottare con altri armi. La Romagna come detto ci prova con il Sangiovese, il cui legame è reso solido anche nel liscio di Raoul Casadei (Evviva la Romagna, evviva il Sangiovese). Da Forlì a Cesena, Ravenna e Rimini, il Sangiovese di Romagna è un doc prodotto con uva a bacca rossa della zona, da cui deriva un vino schietto e secco, ideale per gli abbinamenti con le paste ripiene, i salumi e la cacciagione.
Se la Romagna si è organizzata bene, l’occidente dell’Emilia soffre forse maggiormente lo strapotere del Lambrusco, in particolare la provincia di Parma. Qui il vino rosso è in parte a sua volta Lambrusco, in particolare nelle zone più a est della provincia, oppure è Rosso Parma, una doc con la Barbera dominante sulla Bonarda che dà vita a un prodotto fresco e piacevole, ma ancora non così conosciuto fuori dai confini.
Fuori dalle direttrici del Lambrusco resta invece Piacenza, la più occidentale delle province emiliane, dove il re dei rossi è il Gutturnio.

Molto emiliana e un po’ lombarda, la provincia di Piacenza è un mix di tradizioni e di usanze, di conoscenze e di innovazioni che le provengono dalla sua posizione geografica al confine di 2 regioni e 4 province. Lontana, a volte anche troppo, dalla sua Emilia; più vicina a Milano e alla Lombardia ancora più di quanto non dica quel fiume Po che è l’unica linea di demarcazione tra i due territori.
Ubicazione geografica che si riversa nelle tradizioni gastronomiche e nelle esperienze culinarie. E, tanto per non farsi mancare nulla, anche il più famoso dei vini rossi piacentini è un mix, anzi uno splendido e sapiente blend di Barbera e Bonarda (Croatina) con una proporzione tra i due, in percentuale, che si aggira intorno al 55%-45% a seconda delle zone di produzione.

Sebbene paghi la minore notorietà nei confronti del Lambrusco, il Gutturnio non ha nulla da invidiare a livello di storia. Leggenda vuole che le sue origini affondino in epoca romana da una ricetta di Lucio Calpurnio Pisone, suocero di Giulio Cesare, la cui madre aveva origini piacentine.

Oltre le storie e le leggende – che affondano anche nel significato del nome o nella conservazione della produzione che fa riferimento ai monaci di San Colombano del monastero di Bobbio – il Gutturnio piacentino ha continuato ad essere prodotto senza sosta, diventando bevanda apprezzata anche da autorevoli personaggi come papi, re e artisti.
Come detto la sapiente unione tra il Barbera, vitigno di origine piemontese, con la Croatina (Bonarda) di origine lombarda – in particolare dell’Oltrepo pavese – ha permesso di dare vita a un vino importante e complesso, corposo ma e di lunga persistenza. E, grazie alle sue diverse declinazioni – frizzante, fermo e riserva – capace di soddisfare la più ampia platea di gusti e modalità di degustazione.

Il doc piacentino, proprio per le sue diverse varianti produttive, ha la capacità di essere abbinato senza rimorsi né rimpianti a un’infinità di piatti – dai primi di pasta fresca ai salumi, dalle carni più complesse fino ai formaggi – e regalare sia momenti di non impegnativa spensieratezza a attimi di meditazione.

metropolitanmagazine.it – 13/07/2020

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