Esplora il significato del termine: Il miglior vino dell’anno è un Valpolicella

Facile essere padri orgogliosi dell’Amarone, la creatura che lo ha reso famoso nel mondo. Meno scontato con il Valpolicella, l’avo umile.

Ma Romano Dal Forno lo protegge come uno scrigno che contiene il suo passato contadino. Perché, come il protagonista del romanzo di Marco Missiroli, la sua guida è «il senso dell’elefante, la devozione verso tutti i figli». Questo senso di accudimento ora riceve un tributo speciale: il suo Valpolicella (il Monte Lodoletta 2008) è stato giudicato il miglior vino d’Italia.

La scelta è della giuria del Biwa, Best italian wine adwards, la classifica delle 50 bottiglie imperdibili dell’anno, un evento creato dal sommelier Luca Gardini e dal critico gastronomico Andrea Grignaffini.

«Dopo tre giorni di degustazioni — dice Gardini —, nella parte alta della classifica le differenze dei voti sono state di pochi decimali tra l’Oreno 2011 Sette Ponti di Antonio Moretti, il Furore Fiorduva 2012 di Marisa Cuomo e il Barolo Cannubi Boschis 2010 di Luciano Sandrone, rispettivamente secondo, terzo e quarto classificato.

Ci ha sorpreso la scalata al nono posto di Luca D’Attoma con il Duemani 2011». Dal Forno ha staccato tutti, con tre punti in più sul gruppetto inseguitore.

Il vignaiolo veronese ha impreziosito il Valpolicella doc, che in passato era ritenuto un vino da pizzeria. Anche se contiene le stesse uve dell’Amarone (Corvina, Rondinella e altre) e anche se esiste la categoria Superiore, con un minimo di un anno di affinamento.

La produzione totale di Valpolicella è in calo: nel 2013 meno di 20 milioni di bottiglie l’anno, più che dimezzata rispetto ai 41 milioni del 2005. Eppure questo vino vibrante di ciliegia avrebbe molte carte da giocare.

A partire dal nome, lo stesso della denominazione, un bel vantaggio. Piaceva a Ernest Hemingway, «cordiale come un fratello con cui si va d’accordo», nelle parole del colonnello Cantwell, in “Di là dal fiume e tra gli alberi”.

Molti produttori lo hanno trascurato. Dal Forno ha avuto una piccola grande idea: trasferire nel Valpolicella la sapienza tecnica usata per l’Amarone. Una storia che inizia 31 anni fa.

«Nel 1983 ero un ragazzo di 26 anni — racconta il vignaiolo — con il mito di Giuseppe Quintarelli, già all’epoca una celebrità non solo in Valpolicella. Avevo provato a fare un po’ di vino in Val d’Illasi e andai a trovarlo.

Temevo di trovare un uomo burbero e schivo. Invece il Bepi mi sorrise subito, scendendo in cantina con le ciabatte. Parlava a bassa voce, anch’io rispondevo sussurrando, pensavo non si volesse disturbare il vino. Invece aveva solo un po’ di mal di gola: rise della mia timidezza».

Quali consigli si poteva dare ad un futuro vignaiolo che veniva dalla Val d’Illasi, zona lontana da quella classica, più pregiata?
«Quintarelli disse che nella mia terra veniva bene solo il mais — ricorda Dal Forno —, ma poi ho capito che non conosceva questa zona, parlava del fondo valle, non della collina dove siamo noi. Lui sedeva sul trono della zona classica, guardava dall’alto.

Mi nutrivo delle sue parole, presi il suo scetticismo come una sfida. Mi aprì gli occhi, spiegando il suo credo vinicolo, qualità e rispetto per la terra».

Sette anni dopo il ragazzo si indebita «con incoscienza giovanile» per costruire la nuova cantina (poi ampliata nel 2001) «perché ormai era impossibile e dannoso tenere le bottiglie a casa. Vedevo Quintarelli come la tradizione che può sconfinare nella staticità.

Ho trovato la mia strada, cercando nuove tecnologie e avvicinandomi alla viticoltura francese». Nel 2001 arriva l’intuizione del Valpolicella:

«Sperimentiamo la tecnica dell’appassimento delle uve, come si fa con l’Amarone, 40-50 giorni. Rischioso, perché richiede vendemmia tardiva e maggiore selezione delle uve, e si è più esposti al maltempo. Questo Valpolicella dal costo superiore piace.
L’anno dopo si abbatte su di noi una vendemmia molto difficile, tanta pioggia, quasi come quest’anno. Il Valpolicella si salva, stupisce la sua naturale freschezza unita alla complessità generata dall’appassimento. Non siamo più tornati indietro».

Anno dopo anno, Dal Forno ha conquistato visibilità mondiale.

«Nel passato — spiega — qui si è badato troppo alla quantità, con le viti che crescevano a pergola. L’appassimento delle uve è stato talvolta usato per nascondere la qualità inferiore. Ho cercato di cambiare tutto, abbiamo creato un sistema all’avanguardia di ventilazione per l’appassimento e una rete informatica che controlla la vinificazione.

Produciamo solo tre vini, l’Amarone, il Valpolicella Superiore doc (70% Corvina e Corvina grossa, 20% Rondinella, 5% Croatina, 5% Oseleta e tre anni in barriques) e il Vigna Seré, il Recioto, l’antenato trascurato della Valpolicella che dovrebbe essere portato in gloria».

Ora nei 25 ettari produce 50-60 mila bottiglie l’anno, rinunciando alle annate storte, come questa 2014, per l’Amarone.

E annuncia: «Nel 2014 ci stiamo concentrando sul Valpolicella».
Amato come un figlio.

divini.corriere.it – 19/09/2014

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